Le vicende politiche degli ultimi giorni ci ricordano quanto sia veloce l’evoluzione o, se si preferisce, l’involuzione dello scenario politico italiano ogniqualvolta si presenta una crisi istituzionale, che si ripercuote inevitabilmente anche nella percezione che si ha dei partiti e coinvolge i narratori del bel Paese. Siamo infatti passati da un populismo galoppante e dall’uno vale uno all’adorazione della competenza quale elemento fondante della classe dirigente.
Ascoltare media e leader di partito in questa improvvisa celebrazione del nuovo corso fa rabbrividire. Posto che l’oggettivo sapere tecnico rappresenta un elemento imprescindibile, resta ingiustificabile il totale asservimento della politica allo stesso perché innanzitutto ne certifica il fallimento, e perché è assolutamente inconciliabile con un parlamento di nominati.
Bisognerebbe chiedere alla politica come si può coniugare questa improvvisa adorazione della competenza, che innanzitutto sconfessa la visione complessiva affermatasi negli ultimi anni, con il meccanismo di selezione dei candidati delle liste che resta ancorato alla pura discrezionalità degli apparati dirigenti.
E bisognerebbe chiedere a qualsiasi cittadino quale coerenza si aspetta dai propri rappresentanti, essendo questi ultimi legittimati da regole che escludono qualsiasi forma di rendicontazione nei confronti dei rappresentati.
L’incostituzionalità del vincolo di mandato è un baluardo della libertà di scelta dei rappresentanti, ma sarebbe opportuno rivedere i meccanismi che regolano le procedure di elezione dei componenti del Parlamento: il listino bloccato incentiva la pratica del trasformismo e nello stesso tempo annulla ogni forma di scelta da parte dell’elettore.
La misurazione della fiducia che il singolo candidato riceve con le preferenze è anche valutazione delle sue performance: l’eletto, che eventualmente vuole cambiare casacca in corso d’opera, sa che deve rispondere a un certo numero di elettori quando si ripresenta alle elezioni, e sarà meno tentato dal farlo.
Oggi invece il listino bloccato permette all’eletto di mimetizzarsi ed evitare di rispondere delle proprie scelte di fronte al suo elettorato.
Oggi votiamo per un simbolo che è soltanto un logo colorato privo di qualsiasi valore e di qualsiasi indirizzo: in un contesto politico di disallineamento ideologico e totale irresponsabilità dei rappresentanti non può essere più considerata una scelta consapevole.
Il grande deficit italiano si chiama legge elettorale. Non c’è bisogno di ampliare la democrazia diretta o addirittura pensare che questa possa sostituire quella rappresentativa. È sufficiente che la democrazia rappresentativa sia sufficientemente rappresentativa e garantisca l’indiretta ma effettiva partecipazione dell’elettore ai processi decisionali.
Il grande bluff degli ultimi anni è stato far credere agli italiani di poter colmare la distanza tra la politica e i cittadini con l’allargamento degli strumenti di democrazia diretta, o addirittura pensando di sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta: bastava invece rendere la democrazia rappresentativa effettivamente rappresentativa con una legge elettorale seria.
La follia iconoclasta e l’ignoranza dei nostri tempi
Qualche settimana fa, in seguito alla vicenda che ha portato alla morte di George Floyd soffocato da un’agente di polizia, sono scoppiate violente rivolte da parte della popolazione afro americana nei confronti delle istituzioni: saccheggi, scontri violenti, città messe a ferro e fuoco, e anche statue abbattute oppure imbrattate. In particolar modo, la furia iconoclasta è arrivata anche in Italia: ad essere imbrattata, e non è la prima volta che accade, è la statua di Indro Montanelli, giornalista di fama internazionale, che nel periodo fascista sposò una ragazza 12enne nel periodo dell’occupazione abissina. Atto indicibile, che però rappresentava una pratica frequente per quell’epoca: un’usanza che fa rabbrividire, ma che non può essere cancellata perché racconta la storia di quegli anni.
Il revisionismo storico di comodo può abbattere statue e simboli, ma non riscrive la storia, non cancella la memoria ed è pedagogicamente frustrante e deleterio.
Le statue raccontano le gesta di grandi personaggi, in positivo o negativo, ma anche l’essenza della cultura di società lontane da noi, delle quali non capiamo o non accettiamo più determinati costumi, che oggi sono improponibili perché disvalori.
È la semplice storicizzazione dei valori: ogni epoca ha i suoi, sedimentati con abitudini, azioni, rapporti sociali, organizzazione del potere. Se volessimo cancellare tutte le testimonianze di civiltà lontane e portatrici di costumi ormai non più accettabili, dovremmo distruggere molti monumenti, a partire da quelli di epoca romana, che descrivono una società guerrafondaia, votata alla pratica del sesso con gli adolescenti, allo schiavismo, ecc., della quale non potremmo sicuramente accettare nulla. Eppure, giustamente, ne celebriamo la grandezza e il ruolo fondamentale nella storia.
La furia iconoclasta è l’ennesima dimostrazione della forte confusione tra la funzione pedagogica della storia e la volontà, inutile, di chi vuole riscriverla, cancellandone la parte scomoda. Una pratica che, non a caso, nasce nel medioevo, per definizione l’epoca buia.
Distruggere non serve a nulla, è più produttivo raccontare la storia nella sua pienezza dei fatti, con quel distacco necessario che è garanzia di una comprensione oggettiva. Preservando la memoria nella sua fondamentale funzione di maestra per la futura società, perché ricordare ciò che è stato è il miglior deterrente per non commettere errori.
Le statue raccontano storia, sono essenziali per ricordare ciò che va conosciuto e tenuto in mente per costruire una società dal futuro migliore.
Fuga dal Movimento, polemiche di attivisti e parlamentari
Tre Senatori del Movimento Cinque Stelle (Urraro, Lucidi e Grassi) decidono di abbandonare il gruppo parlamentare cui hanno aderito all’inizio della legislatura, per approdare nel gruppo della Lega. Cosa normalissima e anche parecchio frequente, disciplinata dai regolamenti parlamentari, in linea col divieto di vincolo di mandato dell’articolo 67 della Costituzione. Alla base della decisione ci sono divergenze su alcuni argomenti, come il Mes, la riforma della giustizia, la nota dolente della prescrizione, per la quale però, ad onor del vero, va ricordato che i 3 senatori avevano votato a favore, circa un anno fa.
Arrivano da più parti due tipi di contestazione: la prima riguarda la disciplina dell’assenza del vincolo di mandato, contestata con l’argomentazione “se vieni eletto con i voti di un partito, non puoi aderire al gruppo di un altro partito”:
- premesso che l’adesione a un altro gruppo può anche portare nel gruppo misto, che non si identifica con nessun partito, è chiaro che il parlamentare, come recita la Costituzione, rappresenta la nazione, tutti i cittadini, e non una minima parte;
- è chiaro anche che, quand’anche non ci fosse stata la formalità del passaggio da un gruppo ad un altro, nulla avrebbe vietato ai parlamentari in questione di votare liberamente nelle singole votazioni, anche in dissenso rispetto alla linea adottata dal proprio partito, e quindi in termini di numeri, nelle deliberazioni, ci sarebbe stato lo stesso risultato; anzi, proprio questi casi hanno portato all’espulsione di parlamentari (poi confluiti nel gruppo misto) che hanno votato in dissenso rispetto al proprio gruppo
- è chiaro, inoltre, che la scelta di un Parlamentare di decidere di aderire a un altro gruppo non può essere configurata come mercimonio, se non in presenza di prove che attestino la configurazione di una figura di reato, per cui qualsiasi allusione a mercati di bovini ecc. resta solo un’accusa infondata
La seconda contestazione è più di coerenza politica: si rimprovera ai senatori di aver abbracciato il gruppo delle Lega quando:
- già ci sono stati accordi che hanno dato vita a un contratto di governo tra il partito che rappresenta il gruppo da cui sono usciti i parlamentari e il partito del gruppo al quale hanno aderito;
- i programmi elettorali sono stati brutalmente traditi in più occasioni dalle stesse forze governative che ora chiedono coerenza;
- a parti invertite, l’approdo di un Parlamentare proveniente da un altro gruppo sarebbe visto come un legittimo esercizio delle prerogative dei singoli componenti delle Camere.
Le regole del gioco valgono per tutti, ugualmente, e strumentalizzarle solo per consenso è pura demagogia. Non si riesce a capire perché cambiare idea è convenienza se fatto da un singolo rappresentante, mentre diventa magicamente “bene del paese” se realizzato da un’intera compagine; non si capisce perché gli elettori sono traditi se un singolo parlamentare vota in dissenso rispetto al partito, e questo non avviene quando un’intera compagine non rispetta quanto promesso in campagna elettorale; non si capisce perché l’adesione a un diverso gruppo Parlamentare è mercato delle vacche quando si è il gruppo di provenienza, ed è esercizio di democrazia quando invece si è la destinazione.
Ancora una volta si grida allo scandalo e si gioca sulla poca conoscenza delle regole parlamentari, strumentalizzando dei diritti che sono cristallizzati da qualche secolo. Cambiare idea, aderire a un altro gruppo può anche essere letto come trasformismo politico, nato ormai qualche secolo fa quando la Destra e la Sinistra erano diversamente configurate nello Stato liberale. Ed è normale che quando questo avviene non ci sono giustificazioni, soprattutto quando si cavalca l’onda di accasarsi con il più forte. Di certo non è accettabile che un partito faccia la morale sui repentini cambi di rotta, quando la stessa forza politica ha sfruttato la tattica del “cambiamento” negli ultimi 2 anni:
- abbracciando due diversi alleati di governo (le cui posizioni sono agli antipodi) nel giro di un anno e mezzo, dopo battaglie senza esclusione di colpi;
- non rispettando il programma elettorale grazie al quale ha ottenuto la maggioranza dei voti (dimenticando quindi che il voto degli elettori “conta”, anche in questo caso ;
- cambiando le “una volta ferree regole” del proprio statuto;
- addirittura tentando di non presentarsi alla competizione elettorale in Emilia Romagna e in Umbria, lasciando gli elettori in balia di una scheda priva del proprio simbolo, e quindi senza rappresentanza;
- espellendo dal proprio gruppo parlamentari alcuni senatori che hanno avuto la “colpa” di votare in dissenso rispetto al proprio partito.
Elezioni regionali: partecipare o no, l’autoannullamento dei vertici grillini
Gli attivisti del Movimento Cinque Stelle hanno deciso che il partito deve concorrere alle elezioni in Emilia Romagna e in Calabria. È il risultato di un esercizio di democrazia, seppur realizzato con uno strumento discutibile, quantomeno in una democrazia rappresentativa.
L’ennesima votazione sulla piattaforma Rousseau non ha fatto altro che confermare le incapacità di un movimento che ha addirittura pensato di non presentarsi alle elezioni. È paradossale per una forza politica che è nata con l’intento di rovesciare il sistema, ma poi ne è finita travolta, con le sue contraddizioni, con le sue inesperienze, e soprattutto con le sue paure, tra cui quella ultima di perdere le elezioni o conseguire comunque un risultato inferiore alle aspettative. E il paradosso è ancora più evidente se si considera che il Movimento Cinque Stelle è una forza governativa, che ha il dovere di guidare l’indirizzo politico del Paese, in condivisione con il Partito Democratico.
Se si fa un discorso prettamente politico, ci può stare la lettura per la quale il Movimento rischia parecchio in termini di voti; ma questo non giustifica l’assenza dalla competizione elettorale, perché bisogna sempre presentarsi alle elezioni, è il senso della rappresentanza, è la missione della politica, e le elezioni sono il più grande esercizio di democrazia. Grave sarebbe stato il risultato contrario, significava che gli elettori avrebbero rinunciato a priori ad avere voce in capitolo, ad essere rappresentati. In realtà il quesito non esisteva nemmeno, il movimento è un partito nazionale e non una lista che si presenta alle elezioni comunali e può decidere di non partecipare.
Spesso, infatti, anche a livello locale, i giochi politici costringono piccole liste a presentarsi, nonostante siano “spacciate” in termini di risultati. Non partecipare è un segno di debolezza assoluta, l’ennesimo errore che avrebbe potuto comportare ulteriore perdita di elettorato. Non presentarsi avrebbe significato che quella minima parte di elettorato legata al Movimento sarebbe andata da un’altra parte, perché costretta o ad astenersi o a votare altro, perché non avrebbero avuto voce in capitolo senza rappresentanti. Non sarebbero stati, in definitiva, rappresentati all’interno di un circuito decisionale.
C’è un errore di fondo che caratterizza il pensiero dalla classe dirigente: ragionare spesso in termini elettorali e quasi mai mettendosi dalla parte degli interessi degli elettori. Un elettore che apre la scheda e non trova il simbolo del partito che ha votato fino a quel momento, e sa che quella assenza è frutto di una una scelta fatta coscientemente dai vertici solo per paura di una batosta elettorale, sarà sicuramente spinto ad astenersi oppure a dirottare, seppur contro voglia, il suo voto verso altri simboli. Troncare la libertà di scegliere il proprio partito addirittura non presentandosi alle elezioni è tradire l’impostazione democratica delle elezioni, sconfessare l’idea stessa del diritto dovere di voto, annullare una libertà, quella di scegliere. È un autoannullamento che sa di resa incondizionata, di ammissione delle proprie incapacità.
“La libertà è partecipazione” (Giorgio Gaber)
La speculazione politica tra ricerca del consenso e affermazione delle proprie irresponsabilità
Di fronte a fatti di cronaca dagli epiloghi tragici bisognerebbe fermarsi e stare in silenzio. Soprattutto quando una persona viene ammazzata davanti agli occhi della fidanzata, sopratutto quando le indagini sono ancora in corso. È un fatto di cronaca, e tale deve restare. Ma purtroppo in Italia i fatti, molto spesso, non vengono mai valutati o analizzati per ciò che sono e ciò che rappresentano, ovvero dei fatti, in questo caso dalle conseguenze tragiche perché ha perso la vita Luca, un ragazzo romano che ha avuto l’unica “colpa” di difendere la sua ragazza.
Nemmeno un morto ammazzato può fermare il tritacarne in cui sguazzano i politici italiani, sempre pronti a strumentalizzare qualsiasi episodio, che sia di cronaca, di vita quotidiana, o anche di sport. No. La speculazione non si ferma, mai, perché l’unico obiettivo è raggiungere un alto gradimento tra la popolazione, avere sempre più consenso e determinare una divisione tra chi apprezza il tuo operato e chi invece, semplicemente, non è del tuo stesso colore politico. E se ci facciamo caso, questo meccanismo si ripete ad ogni occasione: terremoti che provocano distruzione, danni a cose e persone; alluvioni; fatti di cronaca che coinvolgono contesti ristretti oppure grandi città; cattiva amministrazione; emergenza immigrazione. Insomma, tutto ciò che riguarda le nostre vite viene puntualmente strumentalizzato da chi dovrebbe dare garanzie e certezze sul futuro della nostra esistenza. È paradossale, ma succede sempre così.
Il meccanismo che viene instaurato è molto semplice, e segue uno schema con passaggi elementari. Accade un fatto, si attribuiscono le conseguenze e gli effetti a qualcuno che non condivide la tua stessa idea politica. In sintesi succede questo, un meccanismo basilare che crea divisioni, categorizzazioni e separazione netta tra un “noi” e “tutti gli altri”. Il risultato è una divisione categorica dei valori universali, come la legalità, la certezza del diritto, la sicurezza, la libertà: vengono tutte spostate verso una certa direzione, e l’utente medio che legge la notizia, e soprattutto il conseguente commento pregno di frasi retoriche, non può che cadere nel tranello e identificarsi con una determinata parte politica. Non solo: la categorizzazione è il primo aspetto di questo meccanismo assurdo che specula, in questo caso, anche sui morti ammazzati. C’è un altro elemento che non va sottovalutato, e che chiaramente risulta essere complementare all’altro: la divisione della società, o comunque di una sua parte considerevole, tra uno schieramento e l’altro comporta automaticamente anche l’implicita colpevolezza degli altri e la totale innocenza di chi invece è pronto a lanciarsi sulla preda e darla in pasto all’opinione pubblica. In definitiva, la categorizzazione tra chi agisce per il bene comune e chi invece è colpevole di non aver fatto il possibile per evitare tragedie è la totale irresponsabilità dell’oratore che parla in nome del popolo, e che guarda caso avrebbe sempre la ricetta giusta per risolvere i problemi che devastano la società, a tutti i livelli: politico, economico, sociale, e anche in quei settori che richiedono altissime competenze tecniche che spesso mancano in chi agisce solo attraverso il consenso, e che grazie al consenso nudo e crudo ha potuto ricoprire incarichi di vertice. Incarichi di responsabilità, incarichi che comportano l’assunzione di responsabilità.
Ed è proprio questo il punto cruciale della discussione: chi rappresenta il popolo ricopre un incarico di responsabilità a cui non può venir meno, in nessun modo. E se si analizza al meglio il concetto di responsabilità dei rappresentanti, emerge chiaramente che il primo grande step che caratterizza questa responsabilità è la responsabilità politica. Le norme del nostro ordinamento giuridico, a partire dal testo costituzionale, ci indicano un insieme di concetti che legano la produzione di atti alle responsabilità degli autori degli stessi: ne è un esempio il controfirma ministeriale, tanto per citarne uno. Questa responsabilità dei rappresentanti, però, nel suo concetto più alto è soprattutto una responsabilità etica, che impone innanzitutto di evitare la diffusione di espressioni demagogiche, strumento vitale per chi invece fa del consenso la sua arma principale.
Oggi si assiste alla corsa al consenso più becero mediante operazioni propagandistiche che denotano soltanto una scelleratezza inaudita. L’immediata condanna dell’avversario politico, anche per quei fatti di cronaca che richiedono un silenzio assoluto in segno di rispetto per chi purtroppo ha lasciato questa terra, è una delle vigliaccherie più infami che un essere umano possa commettere. Questo accade quasi sempre, e accade senza distinzioni di colore politico, a dimostrazione che non è il colore politico a fare l’uomo, non è l’appartenenza a un partito a determinare la serietà e la dignità. E se ci facciamo caso, torniamo alla categorizzazione: come può un fatto di cronaca essere considerato differentemente solo perché l’autore o la vittima appartengono a nazionalità differenti?
Sul caso di Luca Sacchi, ammazzato in circostanze misteriose che sono ancora al vaglio degli inquirenti, le reazioni politiche non si sono fatte attendere, ma sono state tutte sbagliate. Ci si aspettava una compattezza, una dimostrazione di fermezza, di unione di tutte le forze politiche contro la criminalità, che è il vero nemico. Invece sono arrivate le condanne demagogiche verso gli avversari politici, in modo tale da accendere la miccia della polemiche inutili che non portano a nulla, se non a una contrapposizione che serve a chi vuole consenso, a chi vuole raggiungere il potere. Questo atteggiarsi mediante l’utilizzo di toni aspri che tendono solo ad accendere gli animi non solo è improduttivo da un punto di vista delle contromisure che si possono adottare, ma è controproducente anche per diversi motivi che incidono nell’immaginario collettivo in maniera non indifferente: spostare l’attenzione è un assist anche per chi si trova dall’altra parte della legalità, ed è un leit motiv che si ripete ogniqualvolta accade un fatto tragico.
Se il discorso politico viene impostato solo ed esclusivamente sulla divisione e sulla netta separazione dall’altro, nessuna società può considerarsi evoluta o al passo coi tempi, con la modernità. Una società divisa per categorie stilizzate è una società vecchia, è una società medievale, e il cui concetto non può essere realizzato nei moderni stati costituzionali, negli stati di diritto. Perché, appunto, sarebbe una società senza diritto, senza certezze, senza eguaglianza.
Bisogna essere vigili su queste distorsioni etiche, comunicative, che segnano soltanto dei confini tra persone che invece dovrebbero compattarsi, lottare contro un nemico comune, ovvero contro chi non rispetta i principi di uno Stato di diritto. La battaglia per i valori è anche una battaglia di valore, che non può essere strumentalizzata solo in nome del puro consenso elettorale. Affermare l’immediata responsabilità del tuo avversario politico è implicitamente una dichiarazione di irresponsabilità della tua parte politica: suona malissimo soprattutto quando la condanna proviene da chi ricopre una carica pubblica. Ogni centro di potere è un centro di responsabilità, e ogni centro di responsabilità impone di essere integri da un punto di vista morale, etico. Non al contrario di lasciarsi andare alla stupida demagogia, funzionale solo a mettere l’uno contro l’altro.
Il tema della irresponsabilità è sempre attuale, quando viene contestualizzato al mondo politico. Basta anche semplicemente ricollegarsi a delle nozioni essenziali per capire che la politica è decisione, e che la decisione comporta responsabilità. Così come la politica attiva è rappresentanza, e la rappresentanza impone una responsabilità che va oltre quella strettamente giuridica. Walter Bagheot, uno dei più illuminati scienziati del costituzionalismo inglese, affermava che un buon Parlamento deve non solo eleggere un buon governo e fare buone leggi, ma anche educare bene la Nazione, in quella funzione pedagogica che permette ai rappresentanti di insegnare alla società ciò che ancora non sa.
Riduzione del numero dei parlamentari: inutile senza contestuali riforme di sistema
La riduzione del numero dei parlamentari senza una corrispondente rivisitazione dei quorum per l’elezione di alcuni organi costituzionali, senza un’attenta attività di aggiornamento dei regolamenti parlamentari, e soprattutto, senza un’urgente e necessaria revisione dell’attuale legge elettorale è semplicemente un’operazione di pura demagogia, che trova terreno fertile in chi ormai è assuefatto dagli slogan antisistema che regnano incontrastati da qualche anno.
Nulla a che vedere con la sistematica riforma costituzionale respinta con il referendum del 4 dicembre 2016, nella quale, pur prevalendo elementi che poco hanno convinto molti costituzionalisti (il no era giusto, a mio avviso), esisteva comunque un’impostazione organica che avrebbe permesso un coerente funzionamento dell’intero sistema Costituzionale.
Ma oggi è semplice demagogia, e non stupisce che sia accolta con enorme giubilo dai più. D’altronde è difficile tenere alta l’attenzione in chi è sceso in piazza al grido de “il mio voto conta”, in chi ritiene che sia giusto introdurre il vincolo di mandato, in chi ha sempre fatto riferimento a modelli che hanno ridotto la politica a una lotta contro il mostro chiamato “sistema”, ma che paradossalmente hanno poi finito per sfruttare il sistema con alleanze di comodo, identificandosi con lo stesso.
Nessuno combatte contro i propri interessi, ne è un esempio la stessa legge elettorale: fino a quando non si raggiungerà un’intesa su un testo di legge capace di soddisfare in primis gli interessi dei partiti, la legge elettorale non si farà.
Rodotà, Zagrebelski, Gino Strada. Fino a quando il Movimento Cinque Stelle è rimasto all’opposizione, sembrava un partito illuminato, guidato da principi nobili a difesa della Costituzione e della sua integrità, come dimostrato nella battaglia per il referendum del 2016. Di contro il Partito Democratico è stato il partito delle banche, della casta e Renzi era stato definito l’uomo della deriva autoritaria.
Passato al governo, i ruoli si sono invertiti per almeno un anno e mezzo: il Movimento ha magicamente lasciato nel dimenticatoio tutti gli insegnamenti di libertà, onestà e difesa dei diritti, attraverso il silenzio sui provvedimenti anti migranti, i condoni approvati in serie, gli stravolgimenti della Costituzione, e riabilitando così il Partito Democratico, che solo apparentemente ha mostrato interesse e opposizione verso l’azione governativa gialloverde.
Oggi si ritrovano al governo, e il ruolo di spalla silente svolto dal Movimento Cinque Stelle nei confronti della Lega è passato dritto al Partito Democratico, a sua volta stampella dei grillini e complice del primo provvedimento monco di qualsiasi collegamento con il resto del sistema Costituzionale. Senza dimenticare che resta in piedi l’obbrobrio giuridico dell’interruzione della prescrizione dopo il processo di primo grado, sul quale non c’è nemmeno da discutere.
Ma questa gloriosa assemblea che un tempo poteva contare sui grandi nomi del Costituzionalismo, o sui grandissimi della politica , e oggi si è ridotta alle schermaglie sul ripieno dei tortellini, alle alternative agli assorbenti e ai deliri di onnipotenza con i drink di un qualsiasi sabato sera è solo lo specchio di un Paese ormai senza contenuti, la cui unica aspirazione è accaparrarsi una copia autografata del libro di qualche influencer.
Risparmiateci l’ulteriore spettacolo indecoroso della raccolta delle firme per il referendum, dopo aver votato sì.
Il sapore amaro dell’opportunismo politico: in un sol colpo ammazza la libertà di scelta e stronca la fiducia verso i rappresentanti
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito all’affermazione della logica delle tifoserie di partito, e nello stesso tempo al loro stravolgimento: dal sostegno incondizionato alla riforma costituzionale del 2016 a Matteo Renzi (ora uscito dal PD), fino alla cieca giustificazione delle giravolte del
Movimento Cinque Stelle (col paradosso, in qualche caso, che siano stati medesimi soggetti a difendere le due posizioni, a distanza di qualche anno: non è un segreto il passaggio di molti elettori dal centro sinistra al movimento populista).
La strenua difesa delle posizioni avviene spesso in nome della tessera di partito, uno strumento che non solo sacrifica e oscura la libera e autonoma scelta di ogni singolo, ma costringe anche a ingoiare rospi per colpa di imprevedibili alleanze di comodo, nonostante una bellissima previsione sulla libertà di voto contenuta nella nostra Costituzione.
Ma la politica è come l’amore, senza regole, e così finisce che quelle tifoserie, che per anni si sono lasciate andare ai peggiori anatemi, a un certo punto si incontrano, si alleano e finiscono non solo dimenticare il passato per ragioni di convenienza, ma in questo modo anche per perdere le rispettive identità, quelle che in precedenti contesti politici avevano permesso di tracciare confini
invalicabili tra gruppi di soggetti che avevano, almeno nelle buone intenzioni, idee diverse, ma
soprattutto coerenti, sulla struttura della società. Insomma, come in amore, prima ci si odia e poi può prevalere l’affetto. O viceversa: per esempio se oggi si votasse per la conferma della riforma costituzionale come nel 2016, il PD sarebbe spaccato tra un sì e un no a seconda di chi segue Renzi; se oggi si votasse per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, i grillini voterebbero sì in massa.
Il mutamento di pensiero su un oggetto, una situazione o una questione è spesso salutato come
sintomo di intelligenza: sarebbe così se il processo che determina la nascita di idee diverse, e in alcuni casi in contrapposizione a quelle precedentemente sostenute, si basasse su un oggettivo esame della realtà orientato da valori indiscutibili; ma spesso cambiare idea è solo l’espressione del più sfrenato trasformismo, che nella politica attuale si realizza ormai non solo con cambi di maglia, ma anche con alleanze segnate da un profondo opportunismo, in qualche caso l’unico motivo per restare in vita.
Mi sono sempre chiesto se basti una tessera di partito per “prendere posizione”, per dire agli altri da che parte uno sta. Per molti è stato così: rifugiarsi ipocritamente in un simbolo di partito ha significato farsi trasportare dalla corrente, e dalle correnti, e delegare agli altri personali
decisioni; in questa opera di scelta indiretta i singoli hanno dimenticato l’essenza della scelta stessa, che non può essere effettuata per partito preso, non può essere un pregiudizio che si riduce nel “noi siamo meglio degli altri”: la dimostrazione definitiva è che hanno finito per farsi travolgere dalle contraddittorie scelte degli altri, e accertarne passivamente le decisioni. L’esito di questo processo è disastroso, perchè si difende un simbolo privo di contenuto.
È uno dei dilemmi più ricorrenti nella storia della politica, e si intreccia anche con la libertà di scelta riconosciuta ai singoli parlamentari in Costituzione: ubbidire alla logica di squadra e alla disciplina del partito, oppure scegliere autonomamente in piena coscienza. Se votare in base alle indicazioni del proprio partito è parzialmente comprensibile per i rappresentanti, perché spesso è necessario per salvare la poltrona, non si può tollerare invece che i rappresentati seguano ad occhi chiusi chi dovrebbe fare i loro interessi.
Siamo in un’epoca in cui tocca masticare amaro per via di una sciatta politica, in cui l’opportunismo
regna incontrastato e finisce per tradire precedenti impostazioni di principio che, seppur sbagliate in
La crisi di governo tra retorica politica e distorsione della democrazia rappresentativa
La retorica politica cui siamo costretti ad assistere quotidianamente raggiunge i suoi livelli più alti ogniqualvolta si apre una crisi istituzionale. In questi giorni una delle espressioni più abusate è “per il bene del Paese”, trasversalmente utilizzata dai vari attori politici, protagonisti e non, che stanno prendendo parte alle consultazioni. Alla luce delle continue piroette di queste comparse, dobbiamo chiederci quanto può durare l’esercizio di fiducia dei cittadini nei confronti dell’espressione “per il bene del Paese“, e fino a che punto gli elettori riusciranno a considerare le azioni delle odierne istituzioni come atti improntati alla buona fede.
Se negli ultimi 14 mesi gli atti di alcuni rappresentanti delle istituzioni hanno mostrato il lato peggiore della politica, quella cattiva politica dell’opportunismo capace di sposare idee tra loro in contraddizione solo per brama di consenso, oggi i comportamenti registrati in questa fase di crisi non sono dissimili, hanno solo cambiato l’obiettivo, dal consenso alle poltrone.
È diventato difficile credere al “bene del Paese” quando i protagonisti sono fazioni tra loro incompatibili e che, nonostante si sforzino di mostrare benevolenza nei confronti del destino di questo Paese, non riescono a non fare prevalere le lotte interne rispetto al bene comune.
Ma alla retorica politica fa da contrappeso anche una dilagante demagogia che in questi mesi ha bucato la mente di molti elettori. Tant’è che la straordinarietà del nostro tempo è testimoniata dall’esistenza di chi vuole votare ogni volta che i sondaggi sono favorevoli al proprio partito, da un lato, mentre dall’altro c’è chi pretende una decisione sensata da parte di chi ha già avallato azioni disumane verso i più deboli. Volgarizzazione della sovranità popolare e distorsione della democrazia rappresentativa sono ormai fondamenti dell’incultura costituzionale.
Dai pieni poteri all’isolamento: Salvini messo all’angolo dopo aver tentato di fare all in
La stagione politica estiva del 2019 verrà ricordata come una delle più convulse degli ultimi anni. In un clima di paura e delirio di onnipotenza, che ha coinvolto principalmente l’attuale Ministro dell’Interno che ha avviato una fase di pre crisi di governo senza però andare fino in fondo, la politica italiana si appresta a registrare, probabilmente, uno dei suoi cambiamenti più evidenti, quantomeno tra quelli riferiti all’esperienza del governo gialloverde. Bisognerà aspettare il giorno 20, quando la mozione di sfiducia presentata dalla Lega nei confronti del Premier Giuseppe Conte arriverà in aula. Sarà la vera e propria resa dei conti per il destino del governo gialloverde, ma soprattutto potrebbe essere anche una tappa decisiva per il futuro politico dell’attuale leader del Carroccio, che in soli pochi giorni ha visto diminuire drasticamente il consenso e il favore dell’opinione pubblica nei suoi confronti. Clamoroso ma anche paradossale, se si pensa che il cambio di atteggiamento che si registra nell’opinione pubblica arriva proprio in seguito ad esternazioni ed atti del Ministro dell’Interno, contemporaneamente protagonista e vittima di questa fase istituzionale assai convulsa. Protagonista assoluto di questa prima fase di crisi di governo, apertasi in seguito alle dichiarazioni di Matteo Salvini dopo che la mozione sulla Tav, presentata dai cinque stelle e sulla quale i grillini avevano posto il veto, è passata con i voti anche del Pd. In quell’occasione Matteo Salvini non ha esitato ad affermare che l’esperienza di governo era al capolinea, perché un governo che dice no alle opere pubbliche ritenute fondamentali per lo sviluppo del Paese non può andare avanti. E a seguire, la presentazione della mozione di sfiducia della Lega nei confronti del Presidente Conte, accusato di non essere presente in occasione della votazione sulla mozione Tav. Insomma, Matteo Salvini, preso atto della bontà dei sondaggi che davano il suo partito quasi al 40%, forte del sentimento di chiusura verso gli altri registrato durante i comizi in molte piazze italiane e sicuro di una pronta e facile vittoria sulla mozione di sfiducia, non ha esitato a prendere la palla al balzo per fare all-in e prendere tutto: non è un caso, infatti, che proprio all’esito della votazione sulla mozione Tav, in uno dei tanti comizi estivi che lo hanno visto protagonista assoluto, ha chiesto “pieni poteri” agli italiani. Per sua sfortuna, e per fortuna di chi ancora chiede alle istituzioni democratiche, i pieni poteri sono rimasti soltanto il sogno di una notte di mezza estate, e infatti nel giro di pochissimi giorni Salvini si è ritrovato all’angolo, a giocare in difesa, e questo per una serie di ragioni fondamentali che hanno coinvolto, a varie tornate, anche gli esponenti dell’opposizione, soprattutto Matteo Renzi che si è detto disposto a formare un governo istituzionale per realizzare la sessione di bilancio e poi arrivare al voto, riprendendo il monito di Luigi Di Maio che, all’indomani delle esternazioni di Salvini, aveva accusato il collega vicepremier di aver tradito gli italiani proprio prima dell’approvazione finale del progetto di legge sul taglio dei parlamentari. Proprio sulla riforma costituzionale del taglio dei parlamentari è arrivata un’altra sconfitta per Matteo Salvini, che nel discorso del 14 agosto al Senato aveva addirittura rilanciato l’idea di Di Maio, a una condizione: taglio dei parlamentari e poi subito al voto, per dimostrare, almeno in apparenza, di non essere attaccato alla poltrona. Ma il Presidente della Repubblica ha stoppato sul nascere l’ipotesi, forte delle considerazioni non benevole sulla legittimità del progetto di revisione costituzionale. Come se non bastasse, Matteo Salvini ha ricevuto sonore contestazioni anche nelle piazze d’Italia: da Catania a Castel Volturno si è levato forte il grido a una politica maggiormente umanitaria, ma soprattutto rispettosa dei diritti e delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. Il colpo di grazia inferto alle ambizioni politiche di Matteo Salvini è arrivato direttamente dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che riprendendo i contenuti già espressi in occasione della conferenza stampa di qualche settimana fa, nella quale aveva rivendicato la serietà e il lavoro di questo governo mentre altri erano in spiaggia, ha stroncato sul nascere qualsiasi condivisione della politica del Ministro sui migranti (meglio tardi che mai: lo avesse fatto in occasione del caso Diciotti, sarebbe stato sicuramente molto più opportuno). Alla fine Matteo Salvini si è dovuto arrendere: preso atto del mutato sentimento dell’opinione pubblica, del malcontento all’interno del suo partito, delle dichiarazioni sia del Presidente della Repubblica che del Presidente del Consiglio, ma soprattutto della impossibilità che i meccanismi di una democrazia parlamentare possano essere forzati in base al nudo e crudo consenso della massa, il Ministro dell’Interno ha addirittura autorizzato lo sbarco dei migranti della Open Arms, evitando l’ennesima strumentalizzazione sulla vita di chi è più sfortunato.
Nel giro di pochissimi giorni Salvini, da attore protagonista della politica italiana, pronto a fare il grande salto verso i posti di comando, si è invece dovuto accontentare di un ruolo secondario, addirittura declassato ormai nelle gerarchie dei ruoli governativi. Ma le sconfitte di Salvini si possono ricondurre a diverse categorie: la prima è quella istituzionale, per cui la scelta di presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Premier, quindi del governo, è una mozione di sfiducia anche contro i ministri leghisti, ancora in carica nonostante la posizione antagonista nei confronti del resto della squadra governativa. Follemente, potrebbero addirittura continuare senza un nulla di fatto se la mozione di sfiducia non sarà accolta; la seconda sconfitta è nel campo del consenso: dal sogno dei pieni poteri e dall’offensiva spavalda è stato costretto alla ritirata, addirittura senza ricevere appoggio dal restante centro destra berlusconiano; la terza sconfitta è sul piano dell’indirizzo politico: costretto a cedere sullo sbarco dei minori della Open Arms, in questo modo dimostrando da un lato una incoerenza totale rispetto agli indirizzi fino ad oggi perseguiti, dall’altro anche un evidente opportunismo atto ad evitare un secondo caso Diciotti, e in questo caso non ci sarebbe stata nessuna ancora di salvataggio in occasione di un’eventuale votazione sull’autorizzazione a procedere.
La crisi annunciata
Il respingimento della mozione pentastellata sulla Tav ha aperto la crisi di governo, confermata da Matteo Salvini prima con alcune dichiarazioni verso i suoi alleati, poi con la presentazione della mozione di sfiducia nei confronti del Premier Giuseppe Conte, che, a logica, aveva chiesto nella conferenza stampa di ieri sera di parlamentarizzare la crisi. Perché si deve passare per le Camere. (È chiaro che la parlamentarizzazione della crisi è aperta solo dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio; una mozione di sfiducia non serve, se non ad accelerarne i tempi) In risposta al collega, il vicepremier Luigi Di Maio non ha esitato ad affermare che la Lega ha preso in giro gli italiani, sottraendosi anche alla definizione degli ultimi progetti di legge, tra cui quello della riduzione del numero dei parlamentari. Da un lato Salvini, ormai stanco dei suoi alleati perché non più utili ai suoi interessi, dall’altro Di Maio, poco lucido nel non sfruttare una serie di occasioni che gli si sono presentate nell’ultimo anno e mezzo e che avrebbero potuto frenare il suo alleato; in mezzo il Premier Conte, che avrebbe dovuto rispondere maggiormente al suo ruolo di direzione della politica generale del Governo, ma che è rimasto per troppo tempo nelle retrovie, lasciando la scena ai due vicepremier.
Chi si stupisce del repentino cambiamento di atteggiamento tra i protagonisti del Governo evidentemente non ricorda come è nato questo esecutivo, ma soprattutto non ha tenuto conto delle varie frecciate che si sono lanciati durante questa difficile convivenza. Una unione forzata, macchiata dall’impossibilità di creare un Governo firmato Cinque Stelle-Pd, e legata da un contratto di governo che da un punto di vista dei contenuti non poteva non presentare frizioni. Attriti che poi sono aumentati, per scoppiare definitivamente negli ultimi giorni. E’ chiaro che una convivenza dettata da una incompatibilità di fondo poteva finire solo in questo modo, con un tutto contro tutti e un rinfacciarsi delle cose sempre pensate ma mai dette all’alleato. Come nella migliore tradizione politica, esaurita la funzione di utilità e tornaconto, l’alleato non serve più: questo per tutte e due le compagini del Governo. Da un lato Salvini, che tra tutti i favori di cui ha goduto trova clamorosamente un no all’autorizzazione a procedere dei Cinque Stelle; dall’altro Di Maio, che ha cercato in tutti i modi di illudersi e di illudere gli italiani sull’esistenza di un Governo del fare.
Se Salvini è arrivato dove è arrivato è anche e soprattutto per atteggiamenti di complicità dei suoi alleati, per una evidente scelta di comodo di amministratori locali, per le ormai riconosciute uscite a vuoto dell’opposizione, e per una grandissima dose di vuoto umanitario che esiste, da sempre, nella mente degli italiani.
I suoi alleati sono stati incapaci di porre un freno ogni qualvolta il Ministro dell’interno si è dato all’offesa e all’insulto gratuito, e sono stati poco lungimiranti, politicamente parlando, in occasione del voto sull’autorizzazione a procedere. Oltre che essere silenti su troppe ombre dell’altra parte.
Gli amministratori locali non aspettavano altro per legarsi all’uomo forte, sul piano elettorale, per accodarsi alla cascata di voti caratterizzata da una relazione biunivoca e malata: dall’alto al basso e viceversa, senza alcun idea politica.
L’opposizione italiana non esiste, o meglio esiste ma non è capace di produrre iniziative degne di nota e che insistono sui veri temi portanti di una società. È dignitosamente alta la lotta all’imbarbarimento generale, ma non basta.
Gli italiani, infine, sono sempre gli stessi: “eravate un popolo di analfabeti. Dopo 80 anni torno, e vi ritrovo un popolo di analfabeti”.